Questo articolo è stato scritto per Nightingale da Lydia Hooper.
Le nostre vite sono afflitte dall’incertezza. Facciamo affidamento sul design per riuscire a orientarci. Quando i progetti incorporano dati, possono suggerirci le informazioni di cui potremmo aver bisogno.
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I progetti data-driven vengono utilizzati al meglio quando il contesto richiede alcune importanti decisioni e quando sono disponibili dati per l’orientamento. Ad esempio, in questo momento, il mondo è inondato di grafici destinati a spiegare la pandemia, in parte in modo da poter comprendere meglio i rischi e prendere decisioni di conseguenza.
Che ne siano consapevoli o meno, i designer spesso affrontano tali problemi con una serie di euristiche. Queste sono regole, principi generali o scorciatoie mentali che ci aiutano a prendere alcune decisioni rapide, come usare un linguaggio coerente e rendere leggibili i caratteri tipografici.
Le euristiche hanno lo scopo di aiutare nella risoluzione dei problemi, ma possono anche presentare una nuova serie di effetti indesiderati. Negli anni ’70 e ’80 gli psicologi Amos Tversky e Daniel Kahneman hanno gettato le basi per gli studi sulle euristiche e sui bias cognitivi (anche detti pregiudizi).
Come le euristiche, i bias cognitivi possono essere incredibilmente pratici, ma possono anche portare a errori significativi nella percezione, nell’interpretazione, nel giudizio e nel comportamento. Gli stereotipi, ad esempio, sono bias cognitivi.
Sebbene siano comprensibili come effetti dell’evoluzione umana, i pregiudizi cognitivi hanno un impatto sociale che non dovrebbe essere sottovalutato. La profilazione razziale ha contribuito notevolmente all’incarcerazione di massa e la polarizzazione politica è almeno in parte il risultato del bias di conferma.
I designer possono svolgere un ruolo fondamentale nella presentazione delle informazioni, nonché nella loro interpretazione e nel loro impatto. Quando lavoriamo con i dati, abbiamo l’opportunità di guidare i lettori con i fatti, ma non c’è alcuna garanzia che non facciano la loro parte anche i bias, i nostri, oltre a quelli dei lettori. In effetti, è praticamente garantito che lo faranno.
Kahneman si riferisce alle euristiche e ai pregiudizi come pensiero del “Sistema 1”, che è inconscio, immediato e dominante. Il “Sistema 2” è più lento, più deliberato e richiede più sforzo e attenzione. Il pensiero del Sistema 2 è il pensiero necessario per creare progetti con i dati, che consentano ai lettori di prendere decisioni senza saltare a conclusioni errate.
Come designer, dobbiamo prima portare la nostra attenzione sui nostri bias per poter affrontare il nostro lavoro in modo più consapevole. Ci sono circa 175 bias cognitivi conosciuti fino a oggi. Condividerò alcuni di quelli che penso siano i più significativi per i designer, per iniziare a conoscerli e capire allo stesso tempo i problemi a cui possono portare. Quando rallentiamo e pensiamo alle relazioni tra questi pregiudizi e il data storytelling, possiamo anche considerare come potremmo affrontare il nostro lavoro in modo leggermente diverso.
1. Il bias siamo noi
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Innanzitutto dovremmo essere consapevoli che esiste un bias che ci fa pensare che solo gli altri subiscono i bias, che noi siamo meno suscettibili ai pregiudizi (questo si chiama, appunto, bias blind spot). L’ironia sta nel fatto che questo modo di pensare ci rende di fatto più suscettibili ai bias e più propensi a ignorare qualsiasi esercizio o consiglio che potrebbe aiutarci.
I bias operano inconsciamente, quindi non importa cosa pensiamo consciamente di noi stessi (sebbene l’illusione dell’introspezione possa dirci diversamente). È importante che non impariamo a conoscere i bias semplicemente per evidenziare gli errori negli altri, né per razionalizzare le nostre decisioni. È importante essere disposti a individuare gli errori nel nostro modo di pensare, in modo da poter prendere decisioni migliori. Puoi mettere alla prova e imparare a conoscere i tuoi bias con questo test online gratuito dell’Università di Harvard.
2. Anche noi resistiamo alle informazioni che sono in conflitto con le nostre convinzioni
Tutti tendiamo a cercare e trovare informazioni che confermino e conservino le nostre convinzioni, e tendiamo a scartare quelle che potrebbero metterle in discussione (bias di conferma). Quando ci vengono presentate nuove informazioni, potremmo insistere per attenerci alle nostre convinzioni invece di rivederle (conservatism bias).
In che modo questo potrebbe influire sul modo in cui raccogliamo, analizziamo, puliamo e curiamo i set di dati da visualizzare? Potremmo essere inclini a selezionare e usare solo i dati che raccontano la storia di cui siamo personalmente più convinti. Probabilmente rafforzando specifiche narrazioni che riflettono le comunità di cui facciamo parte.
3. Vogliamo appartenenza, ma potrebbe essere necessario andare controcorrente
Il bias di conferma è reso più difficile quando consideriamo che vogliamo adattarci, e quindi generalmente ci circondiamo di persone che la pensano come noi. Questo ci porta non solo a sopravvalutare quanto le altre persone sono d’accordo con le nostre convinzioni, ma anche a sopravvalutare le nostre opinioni (effetto di falso consenso). Trattiamo anche le persone che consideriamo simili a noi in modo più favorevole e potremmo trattare gli altri con intolleranza o pregiudizio (bias all’interno del gruppo).
Inoltre, più persone credono in una certa cosa, più è probabile che noi stessi adottiamo quella convinzione (effetto carrozzone). Possiamo dire o fare cose in base al fatto che saranno apprezzate dagli altri (bias di desiderabilità sociale). Possiamo anche seguire ciecamente gli altri piuttosto che pensare in modo indipendente (effetto gregge).
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Questi pregiudizi indicano anche alcune opportunità di crescita. Possiamo cercare di connetterci con chi è diverso da noi. Come designer, questo potrebbe significare che cerchiamo di includere persone provenienti da diverse prospettive, discipline, organizzazioni, partiti politici, etnie, classi, identità di genere, ecc. Non è sufficiente solo conoscere le persone o incontrarle. Se queste relazioni ci aiuteranno a controllare i nostri bias, dobbiamo investire per fare un passo avanti, sviluppare fiducia e una comunicazione onesta anche in queste relazioni.
Possiamo anche sperimentare invitando intenzionalmente e incorporando diverse prospettive nel nostro processo decisionale. Possiamo esercitarci a essere un “avvocato del diavolo” e condividere idee fuori dagli schemi con gli altri. Possiamo chiedere a noi stessi e agli altri “Quali “regole” potremmo infrangere consapevolmente e in che modo ciò potrebbe influenzare la comprensione di questi dati da parte dei lettori?”
4. Le storie sono importanti e dobbiamo considerare i loro effetti
Le storie sono il modo in cui diamo un senso al mondo, quindi come le informazioni ci vengono presentate può determinare una nostra decisione più delle informazioni stesse (fallacia narrativa). Potremmo anche essere più inclini a prendere decisioni che portino a storie migliori, nonostante i loro effetti (framing bias).
Questi pregiudizi enfatizzano l’importanza del pensiero lento per la progettazione dei dati. I dati hanno sempre bisogno di un contesto, ma dobbiamo essere consapevoli che le storie che raccontiamo con i dati sono un mezzo per raggiungere un fine e dobbiamo chiederci chi potrebbe trarre i maggiori benefici e chi potrebbe essere danneggiato da tali fini. Ci sono alcuni buoni esercizi per allenare questo modo di pensare nella cartella di lavoro di Creative Reaction Lab.
5. Le storie sono migliori quando bilanciano le tendenze statistiche alle esperienze delle persone
Di solito attribuiamo le nostre azioni a influenze esterne, ad esempio “ero in ritardo al lavoro a causa del traffico”. Ma è più probabile che attribuiamo i comportamenti degli altri alla loro personalità, ad esempio “Loro sono sempre in ritardo, perché non considerano semplicemente più tempo per il traffico?” (errore fondamentale di attribuzione e bias di corrispondenza e attore osservatore).
Possiamo emozionarci per storie sugli altri, tuttavia, ancora più di quanto potremmo essere commossi dalle statistiche su un gran numero di persone (bias della vittima identificabile). In effetti, tendiamo a pensare che la probabilità che qualcosa accada si basi su quanti esempi ci vengono prontamente in mente, il che spesso porta a stime e decisioni sbagliate (euristica della disponibilità).
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Quando usiamo sia dati quantitativi che qualitativi per i nostri progetti invitiamo i lettori a considerare tanto i dati statistici sui fattori esterni quanto il modo in cui i dati si riflettono sulle esperienze personali. Dovremmo anche prendere in considerazione progetti interattivi, che invitano i lettori a ritrovarsi nei dati.
6. Le storie sulle esperienze delle persone dovrebbero parlare sia di rischi che di opportunità
Come qualsiasi altra cosa, non ci piacciono le informazioni che pensiamo siano “negative”, quindi potremmo evitarle (effetto struzzo). Inoltre, sottovalutiamo grossolanamente il danno di tali omissioni (omission bias). Tendiamo anche a essere troppo ottimisti, sopravvalutando la probabilità che ci accadano cose buone, mentre sottovalutiamo la probabilità che accadranno cose negative, il che ci porta a correre dei rischi (bias dell’ottimismo). Questo pregiudizio può essere molto difficile da ridurre, ma può servirci se ci dà un senso di speranza e motivazione necessari per perseguire gli obiettivi.
Potrebbe essere meglio bilanciare dati qualitativi che riconoscano i rischi reali in gioco con altri che evidenzino opportunità di cambiamento positivo. Questo offre ai lettori una storia più completa e li supporta nel prendere decisioni basate non solo su fattori motivanti esterni ma anche su fattori interni, che sono molto più potenti.
7. I dati possono essere un potente persuasore quindi dobbiamo usarli con attenzione
Tutti tendiamo a pensare ai dati già esistenti come un punto di riferimento, il che può distorcere il nostro processo decisionale (bias di ancoraggio). Come designer, dobbiamo decidere se è importante mostrare i dati precedenti e, in caso affermativo, quanto mostrare. Ad esempio, se dovessimo rappresentare quanto le pratiche di schiavitù in tutto il mondo sono diminuite negli ultimi 1.000 anni, potrebbe essere più facile ignorare il fatto che rimane una tragica pratica anche oggi.
Tendiamo anche a essere motivati dalla paura della perdita molto più che dal desiderio di guadagno (avversione alla perdita). Più perdite si sperimentano, più è probabile che diventino avverse. Come designer, dobbiamo decidere cosa enfatizzare. Se il problema è importante, possiamo usare questo bias a nostro vantaggio e creare una storia di dati su un qualche tipo di perdita o declino. Tuttavia, specialmente se i nostri lettori sono molto sensibili alla perdita, dovremmo stare attenti a quanto ci appoggiamo a una storia del genere, poiché potremmo spingere i lettori a trascurare i potenziali positivi che potrebbero servirli meglio.
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8. Amiamo informazione e innovazione, questo ci rende biased
Questi possono essere i pregiudizi che influenzano maggiormente la nostra professione. Noi più di altri potremmo essere inclini a cercare più informazioni anche quando non influenzano o incoraggiano l’azione (bias informativo). Nota, c’è un diverso bias informativo discusso in epidemiologia, ma quello a cui mi riferisco qui è il pregiudizio cognitivo discusso in psicologia.
Quando si tratta di aiutare le persone a prendere decisioni, a volte, meno è meglio. Eliminare la spazzatura dei grafici e massimizzare la quantità d’inchiostro dedicata ai dati è solo metà della battaglia. Possiamo anche chiederci: “Queste informazioni sono necessarie?” Ho imparato una grande euristica dal libro di John Maeda The Laws of Simplicity: “Sottrarre l’ovvio, aggiungere il significativo”.
Potremmo anche essere ancora più propensi a essere truffati da nuove idee e tecnologie, trascurando limiti o debolezze (bias dell’innovazione). I principi di base del human-centred design (design basato sulle persone) ci aiutano a ricordare che la fattibilità tecnologica è solo una frazione del buon design, deve esserci anche un reale bisogno umano, identificato attraverso la ricerca qualitativa. Come designer, dobbiamo sempre tenere in considerazione i nostri obblighi etici e considerare le potenziali conseguenze indesiderate (ricordate l’omission bias). Per non dimenticare, molte idee “all’avanguardia” hanno avuto un impatto tragico su lavoro, sfollamento, ambiente, salute, privacy, sicurezza, ecc.
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9. Possiamo mostrare loro un grafico centinaia di volte, ma non possiamo farli cambiare
È più probabile che accettiamo o preferiamo un’idea se vi siamo esposti frequentemente (mero effetto di esposizione). Gli inserzionisti implacabili traggono vantaggio da questo pregiudizio e anche i data designer possono considerare di farlo, se il problema è abbastanza importante da giustificarlo.
Tuttavia, non dovremmo essere troppo convinti della nostra capacità di persuadere. È molto facile sopravvalutarsi o credere di avere più influenza di quanto non ne abbiamo realmente (bias di sicurezza eccessiva e illusione di controllo). Abbiamo sicuramente una parte da recitare, ma non possiamo essere gli unici attori. È meglio quando lavoriamo con persone che mettono in campo altri talenti e possono collaborare per sostenere un obiettivo comune.
10. È facile concentrarsi sui prodotti del nostro processo di progettazione dei dati, ma sarebbe saggio esaminare il processo stesso
Guardando indietro agli eventi, potremmo concentrarci sul risultato, credendo che fosse inevitabile (bias del senno di poi). Può essere facile trascurare il processo, il che rende difficile valutare le decisioni prese (bias di risultato). Questo è aggravato dai nostri ricordi, che sono pesantemente influenzati da cose accadute dopo eventi reali (effetto misinformazione).
Come designer, questo può anche influenzare il modo in cui analizziamo il nostro lavoro e il lavoro degli altri. Sarebbe saggio spostare il nostro campo dalla presentazione dei prodotti finali alla documentazione e al dialogo approfondito sui nostri deliberati processi decisionali. Imparare a riconoscere e lavorare con i nostri pregiudizi cognitivi è un buon inizio.