Tra gli effetti secondari dell’emergenza coronavirus, c’è stato quello di averci calato per tre lunghi mesi in un mondo di dati, grafici e tabelle.
- Il rito quotidiano delle 18 con i dati della Protezione Civile
- La tabella giallo-verde-rossa-arancione fissa sulle prime pagine dei quotidiani
- La “curva” da appiattire
- La scala logaritmica e R0
- Le mappe del contagio
- Le infografiche fai-da-te ricevute via WhatsApp
- I politici che hanno “bisogno di certezze dalla scienza”

La quarantena ci ha fatto scoprire un nuovo centro di gravità permanente: i dati. E questo è avvenuto a diversi livelli: da quello decisionale della politica e della sanità, passando per le migliori inchieste giornalistiche, fino ad arrivare alle nostre piccole scelte quotidiane (“vado o non vado a fare la spesa dopo i dati bruttissimi di ieri?”).
Come mi ha detto la collega Francesca Folda, “Sono rimasta stupita nel notare come – rispetto a 15 anni fa quando si impazziva a trovare dati internazionali che non risalissero a più di 5 anni prima – oggi in questa crisi abbiamo una mole di dati centralizzati, dettagliati a livello globale mai vista prima. Ecco, questo mi ha fatto pensare che se la guerra del Golfo ha segnato il nascere dell’all-news e altri grandi fatti di attualità hanno segnato il via del mobile journalism, del citizen journalism etc, questa pandemia è la prima crisi in cui il giornalismo è data driven, in tempo reale e a livello globale”.
In effetti, tutte le grandi crisi producono sempre un passo in avanti nel mondo dell’informazione:
- Il modello delle reti all-news in stile CNN è nato proprio con la Guerra del Golfo del 1991
- Gli attentati del 5 Luglio 2005 a Londra hanno segnato una svolta per il “citizen journalism” con i “contenuti generati dagli utenti”
- La “Rivoluzione Verde” in Iran del 2009 ci ha aperto le porte dei video amatoriali per aggirare la censura di stato
- Il terremoto ad Haiti del 2010 è stato il primo “Twitter event” della storia digitale
- La “Primavera Araba” del 2011 ha portato Facebook e gli altri social media al centro delle piazze della protesta
- Le elezioni Usa del 2016 ci hanno fatto aprire gli occhi sulle “fake news” e sui rischi di polarizzazione degli algoritmi sviluppati dalle grandi piattaforme.
Ora, il connubio coronavirus-dati ci ha fatto toccare con mano cosa vuol dire vivere in un mondo data-informed. E cioè un mondo in cui i dati sono influenzano molte delle nostre decisioni.
È vero: oggi abbiamo fantastici database aggiornati in tempo reale, bellissime visualizzazioni alla portata di tutti, dashboard curatissime e più consapevolezza sui modelli matematici. E questo ci aiuta sicuramente a informarci meglio, a far prevalere i fatti sulle emozioni, a farci passare in pochi secondi dal micro (la nostra città o addirittura il marciapiede) al macro (la situazione nel mondo).

Sappiamo leggere i dati?
Al tempo stesso, però, l’emergenza coronavirus ha fatto emergere anche una totale mancanza di cultura dei dati. A cominciare dalle istituzioni che in questi mesi hanno pubblicato dati parziali, modificati in corso d’opera, blindati in impietosi file pdf, a volte accompagnati da inquietanti asterischi.
Anche gli scienziati e i giornalisti – che sui dati dovrebbero essere più avanti rispetto ai politici – hanno dato il proprio contributo, condividendo “grafici dell’orrore” che hanno fatto saltare più di un dataninja sulla tastiera.

A proliferare in questo buco nero è poi stata tutta la macchina della disinformazione: dalle tabelle virali su WhatsApp alle simulazioni imprecise sui dati Istat, passando per le infografiche senza ombra di fonte, i complotti e le illazioni razziste basate su analisi caserecce, i dati ufficiali estrapolati fuori contesto, i “numeri smentiti”, le percentuali sballate, i metri di distanza ripresi da studi poi ritrattati.
Tutta questa disinformazione si è alimentata e ha viaggiato più velocemente anche grazie a una scarsa cultura dei dati.
L’abbiamo già visto con tutte le innovazioni del passato: nella prima fase molti si appropriano di nuovi strumenti senza conoscerli troppo.
Da una parte ciò è un bene: favorisce la velocità di adozione di un’innovazione, facendola uscire dalle nicchie e portando i suoi benefici a tutti.
Dall’altra parte, però, si rischia di creare un effetto boomerang se questa adozione non è accompagnata da una piena consapevolezza.
Rispetto al passato ora abbiamo però un vantaggio: sappiamo che bisogna colmare al più presto la mancanza di una cultura dei dati. E proprio per questo a Dataninja siamo al lavoro per diffondere la data-literacy a tutti i livelli: da quelli professionali con i corsi della nostra School, fino ai contesti educativi con (*super-spoiler*) un progetto di media e data literacy in partenza nei prossimi mesi rivolto alle scuole secondarie di tutta Italia.