Non chiamatelo “allenatore”, odia questa parola. Matteo Torre è un “metodologo dell’allenamento” che usa i dati per comunicare agli atleti come migliorare le proprie performance.
Lavora con la nazionale paralimpica di triathlon come data analyst, ma segue anche singoli atleti non professionisti che vogliono una guida nella preparazione di gare impegnative come maratone o Ironman, tra le competizioni più famose ed estreme della disciplina del triathlon.
L’abbiamo intervistato per capire come integra la statistica nel suo lavoro, che limiti ci sono e quali competenze ha acquisito nel tempo per trasformare quella figura che di solito sta a bordo pista con il cronometro in mano in una persona che guarda dashboard e tracciati per consigliare come modificare stile di corsa e pedalata.
Allora Matteo non sei un allenatore, quindi esattamente che lavoro fai?
Il mio lavoro è fare il metodologo dell’allenamento per sport di endurance.
Quando lavoro con gli atleti singoli faccio human performance analysis, che nel mondo dello sport tradizionale vuol dire preparare le famose “tabelle di allenamento”. Mi occupo delle persone grazie alla tecnologia: i miei atleti indossano orologi, fasce cardio e sensori che trasformano corse, uscite in bici e nuotate in grafici. Ma negli anni mi sono costruito una rete di collaborazioni con altri professionisti diffusi sul territorio per assistere l’atleta in tutti gli aspetti della preparazione, in cui ognuno fa la sua parte: c’è il biologo nutrizionista, l’esperto di functional training, chi si occupa della postura. Sono i miei occhi, i dati vanno bene ma non sono tutto.
Poi lavoro come consulente per LWT3, un’azienda che si occupa di data analysis e di data visualization anche per il mondo dello sport: li aiuto a interpretare i dati che arrivano dai test fatti dagli atleti, in laboratorio o sul campo.
Come sei arrivato a capire che i dati potevano aiutarti a fare questo lavoro?
L’interesse per la statistica l’ho sviluppato all’università, con una tesi sull’analisi delle politiche pubbliche. Poi sono finito nella comunicazione di Ferrari a Maranello, dove ho passato più tempo con gli ingegneri che con i miei colleghi del marketing. Quando ho deciso di fare una nuova esperienza fuori dalla Ferrari, in maniera autonoma, è stato normale non buttare via quello che avevo fatto ma reimpiegarlo: progettare la performance di un mezzo tecnico non è diversa dal programmare la performance di un essere umano. C’è una differenza di contenuto ma non di processo. Trovi quello che funziona, raccogli i dati, li analizzi e li trasformi in informazioni utili per agire.
La parte di competenza specifica sulla human performance l’ho sviluppata come tecnico della Federazione Italiana Triathlon. Non esiste una scuola che ti forma a questa professione specifica, ho studiato da solo, seguendo chi aveva questo approccio basato sui dati, soprattutto negli Stati Uniti, come per esempio Tim Cusick, product leader di Training Peaks che è il mio strumento di lavoro principale, una piattaforma da cui monitoro gli allenamenti dei miei atleti.
Poi in questi mesi ho approfondito lo studio della statistica multivariata, seguendo le lezioni del professor Riccardo Leardi. Ho acquisito le competenze in modo informale. Oggi se vuoi fare una cosa, mettere a fuoco la tua area scientifica, il know how è a disposizione, basta andare a cercarlo e farci tanta pratica. Una cosa però tengo a sottolinearla: non si può fare una buona analisi senza conoscere la materia che si sta analizzando. Lo statistico generico non può analizzare dati di triathlon, serve l’esperto di dominio. Quindi la formazione deve essere completa, deve andare di pari passo.
Quali sono i dati che guardi?
Sono dati metabolico-meccanico-cinematici. Per esempio nel ciclismo la forza, la velocità di rotazione, la potenza. Nella corsa la potenza, la cadenza, l’ampiezza, la velocità, la frequenza cardiaca. Nel nuoto, che è lo sport più complesso in assoluto, stiamo sviluppando una sinergia tra la classica videoanalisi e la multivariata. Poi per tutti il monitoraggio riguarda anche il recupero: pressione, variabilità cardiaca, umore, motivazione, affaticamento percepito…
Qual è la difficoltà maggiore che hai nel comunicare con gli atleti, parlando di numeri e dati?
Spiegare l’importanza di come raccoglierli. Per esempio del fatto che Stryd (il sensore di potenza, ndr) deve essere messo sempre sullo stesso piede: se il dato non è pulito puoi arrivare a conclusioni fuorvianti, la pulizia del dataset è quasi più importante dell’analisi. Nella fisiologia dell’esercizio è importante che il valore sia ripetibile.
Come funziona quindi esattamente il tuo lavoro? Avendo lavorato con te come atleta (non professionista) so come funziona la quotidianità: usciamo per allenarci, con i nostri sensori, dall’orologio al chip sulle scarpe per misurare la potenza, poi i dati vengono caricati sull’app di Training Peaks e tu “controlli” gli allenamenti. Cosa ti fa dire se siamo andati “bene” o “male”?
Me lo fa dire il mio approccio strutturato e non casuale, che non si basa unicamente sulle sensazioni dell’atleta nella corsa o nelle altre discipline (nuoto e bici nel mio caso). Ma ho imparato che non bisogna mai “imporre” i dati, dire “l’ha detto la curva”: per comunicare la cultura del dato bisogna calarla nell’esperienza individuale. Bisogna coinvolgere le persone. Se ci metti il dato in mezzo, c’è una barriera. Il dato è il punto di partenza del lavoro insieme. Perché c’è l’aspetto soggettivo dell’atleta che va preso in considerazione: io posso anche vedere che il sellino migliore per la sua performance da ciclista è quello di un certo tipo, ma se lui lo trova scomodo devo ascoltare anche le sue sensazioni.
Con la nazionale e con gli atleti elite invece sono inserito in uno staff dove ogni tecnico ha le sue funzioni: io supporto le decisioni dello staff e del direttore tecnico analizzando la prestazione, la performance. Fornisco informazioni oggettive che messe insieme alla sensibilità del tecnico e a quello che vede sul campo aiutano a prendere decisioni più efficaci.